venerdì 24 novembre 2023

Il libro di sabbia

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proSabato: Jorge Luis Borges, Il libro di sabbia

La linea è costituita da un numero infinito di punti; il piano, da un numero infinito di linee; il volume, da un numero infinito di piani; l’ipervolume, da un numero infinito di volumi… No, decisamente non è questo, more geometrico, il modo migliore di iniziare il mio racconto. È diventata ormai una convenzione affermare che ogni racconto fantastico è veridico; il mio, tuttavia, è veridico.
Vivo solo, a un quarto piano di calle Belgrano. Qualche mese fa, verso sera, sentii bussare alla porta. Aprii ed entrò uno sconosciuto. Era un uomo alto, dai lineamenti indistinti. Forse era la mia miopia a vederli così. Tutto il suo aspetto lasciava trasparire una dignitosa povertà. Era vestito di grigio e aveva in mano una valigia grigia. Intuii subito che era straniero. All’inizio mi parve vecchio, poi mi resi conto che ero stato tratto in inganno dai suoi radi capelli biondi, quasi bianchi, come quelli degli scandinavi. Nel corso della nostra conversazione, che non sarebbe durata neppure un’ora, seppi che veniva dalle Orcadi.
Gli indicai una sedia. L’uomo tardò a parlare. Emanava un senso di malinconia, come me adesso.
«Vendo Bibbie», spiegò.
Non senza pedanteria gli risposi: «In questa casa ci sono varie Bibbie inglesi, compresa la prima, quella di John Wiclif. Ho anche quella di Cipriano de Valera, quella di Lutero, che letterariamente è la peggiore, e un esemplare della Vulgata latina. Come vede, non sono esattamente le Bibbie a mancarmi».
Dopo un attimo di silenzio, ribatté: «Non vendo solo Bibbie. Posso mostrarle un libro sacro che forse le interesserà. L’ho acquistato ai confini di Bikaner».
Lo tirò fuori dalla valigia e lo posò sul tavolo. Era un volume in ottavo, rilegato in tela. Senza dubbio era passato per molte mani. Lo esaminai; il suo peso insolito mi sorprese. Sul dorso c’era scritto Holy Writ e sotto Bombay.
«Sarà dell’Ottocento», osservai.
«Non lo so. Non l’ho mai saputo», fu la risposta.
Lo aprii a caso. I caratteri mi erano sconosciuti. Le pagine, che mi parvero logore e povere dal punto di vista tipografico, erano stampate su due colonne come una Bibbia. Il testo era fitto e disposto in versetti. Negli angoli in alto comparivano cifre arabe. Attrasse la mia attenzione il fatto che la pagina pari portasse (mettiamo) il numero 40.514 e quella dispari, successiva, il 999. La voltai: il verso aveva una numerazione a otto cifre. C’era anche una piccola illustrazione, come si usa nei dizionari: un’ancora disegnata a penna, come dalla mano goffa di un bambino.
Fu allora che lo sconosciuto mi disse: «La guardi bene. Non la vedrà mai più».
C’era una minaccia nell’affermazione, non nella voce.
Guardai bene il punto esatto e chiusi il volume. Poi lo riaprii immediatamente. Cercai invano la figura dell’ancora, pagina dopo pagina. Per nascondere il mio sconcerto, gli chiesi: «Si tratta di una versione delle Scritture in qualche lingua indostanica, non è vero?».
«No», rispose.
Poi abbassò la voce come per confidarmi un segreto: «L’ho acquistato in un villaggio della pianura, in cambio di qualche rupia e della Bibbia. Il proprietario non sapeva leggere. Ho il sospetto che nel Libro dei Libri vedesse un amuleto. Apparteneva alla casta più bassa; la gente non poteva calpestare la sua ombra senza contaminarsi. Mi disse che il suo libro si chiamava Il libro di sabbia, perché né il libro né la sabbia hanno principio o fine».
Mi invitò a cercare la prima pagina.
Appoggiai la mano sinistra sul frontespizio e aprii il volume con il pollice quasi attaccato all’indice. Fu tutto inutile: tra il frontespizio e la mano c’erano sempre varie pagine. Era come se spuntassero dal libro.
«Ora cerchi la fine».
Fu un nuovo fallimento; riuscii a stento a balbettare con una voce che non era la mia: «Non può essere».
Sempre sottovoce, il venditore di Bibbie mi disse: «Non può essere, ma è. Questo libro ha un numero di pagine esattamente infinito. Nessuna è la prima, nessuna l’ultima. Non so perché siano numerate in questo modo arbitrario. Forse per far capire che i termini di una serie infinita ammettono qualunque numero».
Poi, come se pensasse a voce alta: «Se lo spazio è infinito, siamo in qualunque punto dello spazio. Se il tempo è infinito, siamo in qualunque punto del tempo».
Le sue considerazioni mi irritarono. Gli chiesi: «Lei è religioso, non è vero?».
«Sì, sono presbiteriano. La mia coscienza è pulita. Sono sicuro di non aver imbrogliato l’indigeno quando gli ho dato la Parola del Signore in cambio del suo libro diabolico».
Gli assicurai che non aveva nulla da rimproverarsi e gli chiesi se era di passaggio da queste parti. Mi rispose che pensava di rientrare in patria nel giro di qualche giorno. Seppi allora che era scozzese, delle isole Orcadi. Gli dissi che personalmente amavo la Scozia per via di Stevenson e Hume.
«E di Robbie Burns», mi corresse.
Mentre parlavamo, continuavo a esplorare il libro infinito. Con finta indifferenza, gli chiesi: «Ha intenzione di offrire questo curioso esemplare al Museo Britannico?».
«No. Lo offro a lei», ribatté e fissò una cifra elevata.
Gli risposi, in tutta sincerità, che quella somma era inaccessibile per me e mi misi a riflettere. In pochi minuti il mio piano era ordito.
«Le propongo uno scambio – gli dissi. – Lei ha ottenuto questo volume per qualche rupia e per le Sacre Scritture; io le offro l’ammontare della mia pensione, che ho appena riscosso, e la Bibbia di Wiclif in caratteri gotici. L’ho ereditata dai miei genitori».
«A black-letter Wiclif!», mormorò.
Andai in camera mia e gli portai il denaro e il libro. Sfogliò le pagine e studiò la copertina con fervore da bibliofilo.
«Affare fatto», disse.
Parlammo dell’India, delle Orcadi e degli jarls norvegesi che le avevano governate. Era notte quando l’uomo se ne andò. Non l’ho più visto, né ho mai saputo il suo nome.
Pensai di mettere Il libro di sabbia nello spazio vuoto lasciato dal Wiclif, ma alla fine decisi di nasconderlo dietro alcuni volumi scompaginati delle Mille e una notte.
Andai a letto e non dormii. Alle tre o alle quattro del mattino accesi la luce. Presi il libro impossibile e iniziai a sfogliarlo. Su una pagina vidi l’incisione di una maschera. Nell’angolo in alto c’era un numero, non ricordo quale, elevato alla nona potenza.
Non mostrai il mio tesoro a nessuno. Alla gioia di possederlo si aggiunse il timore che me lo rubassero, e poi il sospetto che non fosse davvero infinito. Queste due preoccupazioni aggravarono la mia vecchia misantropia. Mi restavano alcuni amici; smisi di vederli. Prigioniero del libro, quasi non mettevo piede fuori di casa. Esaminai con una lente il dorso logoro e le copertine ed esclusi la possibilità di un qualche artificio. Mi resi conto che le piccole illustrazioni si trovavano a duemila pagine una dall’altra. Le annotai pian piano in una rubrica, che non tardai a riempire. Non si ripetevano mai. Di notte, nelle rare tregue che mi concedeva l’insonnia, sognavo il libro.
L’estate declinava quando compresi che il libro era mostruoso. A nulla valse considerare che era non meno mostruoso di me, che lo percepivo con gli occhi e lo palpavo con dieci dita dotate di unghie. Sentii che era un oggetto da incubo, una cosa oscena che infamava e corrompeva la realtà.
Pensai al fuoco, ma ebbi paura che la combustione di un libro infinito fosse altrettanto infinita e soffocasse il pianeta nel fumo.
Ricordai d’aver letto che il luogo migliore per nascondere una foglia è un bosco. Prima di andare in pensione lavoravo alla Biblioteca Nazionale, che ospita novecentomila volumi; so che a destra dell’atrio una scala curva scende nel seminterrato, dove sono i periodici e le mappe. Approfittai di una distrazione degli impiegati per abbandonare Il libro di sabbia su uno degli scaffali umidi. Cercai di non far caso a quale altezza né a quale distanza dalla porta.
Mi sento un po’ sollevato, ma non voglio neppure passare per calle México.

 

Edizione di riferimento: Jorge Luis Borges, Il libro di sabbia, A cura di Tommaso Scarano. Traduzione di Ilde Carmignani, Adelphi 2018 (precedenti edizioni Adelphi 2004 e 2014)

martedì 7 novembre 2023

Perdere qualcosa o qualcuno

 

Alessandro Baricco: "Ho visto complicare in modo feroce e stupido la vita degli umani"

di Alessandro Baricco


Esce una raccolta di racconti inediti di autori italiani che rispondono alla domanda: che cosa è sopravvalutato? Pubblichiamo in anteprima quello dello scrittore di “Seta” intitolato "Perdere qualcosa o qualcuno"

 

 

Non che sia piacevole, certo. Ma se penso a cosa ho visto complicare in modo particolarmente feroce e stupido la vita degli umani, ho ben presente la loro tendenza ad attribuire una gravità altissima a quelle circostanze in cui, per incuria personale, ingerenza del caso o iniziativa altrui, ci si trova a dover rinunciare a qualcosa, se non addirittura a qualcuno. Ciò che sembra accadere, lì, e che una sezione più o meno portante dell’edificio in cui gli umani trovano ricovero scompaia, dall’oggi al domani, compromettendo una stabilità che si voleva compiuta. E già si intravede l’assurdità della cosa. Giacché nessuna stabilità è stabile, come si sa, e nessun ricovero è mai sufficiente, e comunque compiuto, realizzato. Si tratta sempre di opere in costruzione, di sistemi provvisori, tanto che la convinzione che molti hanno di disporre di un tetto sulla testa, almeno, la notte, appartiene assai più a un abile storytelling quotidiano che alla realtà dei fatti. Si deve capire allora che, in una cornice di tale evidente precarietà, la perdita di cose e persone non dovrebbe rappresentare che un assestamento statico tra gli altri, comunque la frana di un muro mai davvero costruito, in definitiva un ordinario ridisegnarsi di un sistema complesso sempre in divenire.
E invece.

E invece gli umani tendono ad aggrapparsi a ciò che se ne sta andando, nella folle convinzione che quanto stanno perdendo sia indispensabile alla loro sopravvivenza. Alle volte, seppur per un lasso di tempo misurato, perfino una borsetta, rubata, o un quarto d’ora, perso ad aspettare in coda, possono assumere mitologicamente la statura di una perdita mortale. Tanto è istintivo il terrore di vederci sottratto qualcosa. Lo complica, e lo estremizza, un culto della proprietà che è fenomeno storico, portato culturale, tara ideologica, ma non per questo meno ostico da fronteggiare. L’idea, di per sé folle, di possedere qualcosa o addirittura qualcuno ci accompagna, condannandoci a un lavoro di polizia costante e di sorveglianza maniacale. Viviamo esistenze fatte di casseforti, contraeree, allarmi e ponti levatoi. Giacché, invece di abitare accanto alle cose e alle persone, ne facciamo nostre proprietà, quindi punto di non ritorno, status acquisito: capite che esistenza piena di ansie siamo destinati a colmare coi nostri giorni. Chi possiede, sarà derubato.

Le conseguenze di questa inclinazione a sopravvalutare la perdita di cose e persone sono, come si sa, terrificanti. E si allungano per anni nei giorni della gente. Innumerevoli sono i casi di vite quotidiane ridisegnate dallo shock di una perdita, e non sembra poi avere una grande importanza la dimensione della perdita. Come la morte di una persona cara può trasformarsi in un verdetto di condanna su un’intera vita, la perdita di una possibilità di lavoro, o di una onorificenza, o di una gara, può allungarsi come un’ombra nera su tutte le vite circostanti, per anni. Se si cerca dentro certe infelicità che sterminano intere famiglie, si troverà facilmente la futilità di una opportunità persa tanto tempo prima, o lo sfregio di una scomparsa voluta dal caso o da una maligna intenzione altrui. È straziante pensare quale luce e quanta vita si sarebbe potuto generare se solo si fosse stati capaci, in quel preciso momento, di lasciare andare le cose, invece che sopravvalutare tragicamente l’effetto del loro abbandono.

Si dirà che elaborare una perdita, o un lutto, o un furto, non è una cosa semplice, e che in generale non si sceglie come reagire allo strappo che ci porta via una vita, una fortuna, un amore: si soffre e basta. Ci si ribella. Ci si vendica. Ma non è poi così vero. La capacità di lasciare andare le cose e le persone parte da lontano, è un modo di stare al mondo ed è cosa che si può educare in ogni nostro fare. Non è vero che ci sia estranea, ci è solo, culturalmente, lontana. Ma ci appartiene e, se solo evitiamo di arrenderci senza condizioni alla paura, la possiamo ritrovare nelle mosse più spontanee del nostro animo. C’è una leggerezza istintiva, in noi, o almeno c’era prima che fossimo educati a combatterla.

Analogamente, non è affatto fuori dalla nostra portata la capacità di trovare saldezza e riparo non tanto nelle cose e persone in mezzo a cui viviamo (e che ci illudiamo di possedere) ma in una regione intima del nostro sentire che, come un’isola, come un ombelico, come una sorgente, pre-esiste all’arrivo di qualsiasi scheggia di mondo, e sopravvive, intonsa, a qualsiasi suo dileguarsi. Bisogna avere fiducia in questa nostra camera segreta, e non cessare di cercarla, in noi stessi. Si trova più o meno dove la nostra vita interiore incrocia il respiro del corpo, il flusso impalpabile dei ricordi, un inconsueto amore per noi stessi, e una strana calma. Lì, nessuna perdita è disastrosa. Al limite, neanche quella della vita.

Devo aggiungere una postilla discutibile. Nel novero delle cose e persone che accade di perdere, vanno ovviamente registrate con un tratto particolare quelle che si perdono a causa di un’ingiustizia. Sono moltissime. Ci sarebbe una legge, o quanto meno una consuetudine, o almeno una norma di buon senso, e qualcuno la infrange e ci porta via qualcosa o qualcuno. La cosa ci esaspera perché aggiunge, al dolore della perdita, il senso intollerabile dell’ingiustizia. Allora scatta un fenomeno di legittima ribellione, e se ci fosse qualcuno che ancora non ne ha capito le devastanti conseguenze può leggere Michael Kohlhaas di Kleist, o ripassare la genesi di qualsiasi guerra. Per quanto possa sembrare sgradevole e pericoloso dirlo, la tendenza a sopravvalutare il valore delle ingiustizie e l’inclinazione a idolatrare la giustizia genera sofferenze immani, tra gli umani, tanto da rendere lecito chiedersi se un atteggiamento più morbido sulla faccenda non produrrebbe, a medio e lungo termine, un mondo più vivibile, dolce e, in definitiva, vero.

 

giovedì 26 ottobre 2023

IL SEGRETARIO GENERALE - António Guterres OSSERVAZIONI AL CONSIGLIO DI SICUREZZA SUL MEDIO ORIENTE

IL SEGRETARIO GENERALE - António Guterres OSSERVAZIONI AL CONSIGLIO DI SICUREZZA SUL MEDIO ORIENTE

New York, 24 ottobre 2023

Signor Presidente, con il suo permesso vorrei fare una piccola introduzione e poi chiedere ai miei colleghi di informare il Consiglio di Sicurezza sulla situazione in loco.

Eccellenze,

La situazione in Medio Oriente si fa di ora in ora più drammatica.

La guerra a Gaza infuria e rischia di estendersi a tutta la regione.

Le divisioni stanno spaccando le società. Le tensioni minacciano di esplodere.

In un momento cruciale come questo, è fondamentale essere chiari sui principi, a partire da quello fondamentale del rispetto e della protezione dei civili.

Ho condannato in modo inequivocabile gli orribili e inauditi atti di terrore compiuti da Hamas il 7 ottobre in Israele.

Nulla può giustificare l’uccisione, il ferimento e il rapimento deliberato di civili – o il lancio di razzi contro obiettivi civili.

Tutti gli ostaggi devono essere trattati umanamente e rilasciati immediatamente e senza condizioni. Noto con rispetto la presenza tra noi dei membri delle loro famiglie.

Eccellenze,

È importante riconoscere che gli attacchi di Hamas non sono avvenuti nel vuoto.

Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione.

Hanno visto la loro terra costantemente divorata dagli insediamenti e tormentata dalla violenza; la loro economia soffocata; la loro gente sfollata e le loro case demolite. Le speranze di una soluzione politica alla loro situazione sono svanite.

Ma le rimostranze del popolo palestinese non possono giustificare gli spaventosi attacchi di Hamas. E questi terribili attacchi non possono giustificare la punizione collettiva del popolo palestinese.

Eccellenze,

Anche la guerra ha delle regole.

Dobbiamo chiedere a tutte le parti in causa di sostenere e rispettare gli obblighi derivanti dal diritto umanitario internazionale; di prestare costante attenzione, nella conduzione delle operazioni militari, a risparmiare i civili; di rispettare e proteggere gli ospedali e di rispettare l’inviolabilità delle strutture delle Nazioni Unite che oggi ospitano più di 600.000 palestinesi.

L’incessante bombardamento di Gaza da parte delle forze israeliane, il livello di vittime civili e la distruzione di quartieri continuano a crescere e sono profondamente allarmanti.

Piango e onoro le decine di colleghi dell’ONU che lavorano per l’UNRWA – purtroppo almeno 35 – uccisi nei bombardamenti su Gaza nelle ultime due settimane.

Devo alle loro famiglie la mia condanna di queste e di molte altre uccisioni simili.

La protezione dei civili è fondamentale in ogni conflitto armato.

Proteggere i civili non può mai significare usarli come scudi umani.

Proteggere i civili non significa ordinare a più di un milione di persone di evacuare a sud, dove non ci sono ripari, cibo, acqua, medicine e carburante, e poi continuare a bombardare il sud stesso.

Sono profondamente preoccupato per le chiare violazioni del diritto umanitario internazionale a cui stiamo assistendo a Gaza.

Voglio essere chiaro: nessuna parte di un conflitto armato è al di sopra del diritto internazionale umanitario.

Eccellenze,

Per fortuna, alcuni aiuti umanitari stanno finalmente arrivando a Gaza.

Ma si tratta di una goccia di aiuti in un oceano di necessità.

Inoltre, le forniture di carburante delle Nazioni Unite a Gaza si esauriranno nel giro di pochi giorni. Questo sarebbe un altro disastro.

Senza carburante, gli aiuti non possono essere consegnati, gli ospedali non hanno energia e l’acqua potabile non può essere purificata o addirittura pompata.

La popolazione di Gaza ha bisogno di aiuti continui ad un livello corrispondente alle enormi necessità. Gli aiuti devono essere consegnati senza restrizioni.

Rendo omaggio ai nostri colleghi delle Nazioni Unite e ai partner umanitari a Gaza che lavorano in condizioni pericolose e rischiano la vita per fornire aiuti a chi ne ha bisogno. Sono un’ispirazione.

Per alleviare le sofferenze epiche, rendere più facile e sicura la consegna degli aiuti e facilitare il rilascio degli ostaggi, rinnovo il mio appello per un immediato cessate il fuoco umanitario.

Eccellenze,

Anche in questo momento di grave e immediato pericolo, non possiamo perdere di vista l’unica base realistica per una vera pace e stabilità: la soluzione dei due Stati.

Gli israeliani devono vedere concretizzate le loro legittime esigenze di sicurezza e i palestinesi devono vedere realizzate le loro legittime aspirazioni a uno Stato indipendente, in linea con le risoluzioni delle Nazioni Unite, il diritto internazionale e gli accordi precedenti.

Infine, dobbiamo essere chiari sul principio di sostenere la dignità umana.

La polarizzazione e la disumanizzazione sono alimentate da uno tsunami di disinformazione.

Dobbiamo opporci alle forze dell’antisemitismo, del bigottismo antimusulmano e di tutte le forme di odio.

Signor Presidente,

Eccellenze,

Oggi è la Giornata delle Nazioni Unite, che segna i 78 anni dall’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite.

La Carta riflette il nostro impegno comune a promuovere la pace, lo sviluppo sostenibile e i diritti umani.

In questa Giornata delle Nazioni Unite, in quest’ora critica, faccio appello a tutti affinché ci si ritiri dall’orlo del baratro prima che la violenza mieta altre vite e si diffonda ancora di più.

Grazie mille.

New York, 24/10/2023

domenica 8 ottobre 2023

Cupamente andavo, or non è molto, nel crepuscolo livido

 

Cupamente andavo, or non è molto, nel crepuscolo livido di morte, - cupo, duro, le labbra serrate. Non soltanto un sole mi era tramontato.
Un sentiero, in salita dispettosa tra sfasciume di pietre, maligno, solitario, cui,non si addicevano più né erbe né cespugli: un sentiero di montagna digrignava sotto il dispetto del mio piede.
Muto, incedendo sul ghignante crepitio della ghiaia, calpestando il pietrisco, che lo faceva sdrucciolare: così il mio piede si faceva strada verso l'alto.
Verso l'alto: - a dispetto dello spirito che lo traeva in basso, in basso verso abissi, lo spirito di gravità, il mio demonio e nemico capitale.
Verso l'alto: - sebbene fosse seduto su di me, metà nano; metà talpa; storpio; storpiante; gocciante piombo nel cavo del mio orecchio, pensieri-gocce-di-piombo nel mio cervello.
"O Zarathustra, sussurrava beffardamente sillabando le parole, tu, pietra filosofale! Hai scagliato te stesso in alto, ma qualsiasi pietra scagliata deve - cadere!
O Zarathustra, pietra filosofale, pietra lanciata da fionda, tu che frantumi le stelle! Hai scagliato te stesso così in alto, - ma ogni pietra scagliata deve cadere!
Condannato a te stesso, alla lapidazione di te stesso: o Zarathustra, è vero: tu scagliasti la pietra lontano, - ma essa ricadrà su di te!".
Qui il nano tacque; e ciò durò a lungo. Il suo tacere però mi opprimeva; e l'essere in due in questo modo è in verità, più solitudine che l'essere solo!
Salivo, - salivo, - sognavo, - pensavo: ma tutto mi opprimeva. Ero come un malato: stremato dal suo tormento atroce, sta per dormire, ma un sogno, più atroce ancora, lo ridesta. -
Ma c'è qualcosa che io chiamo coraggio: questo finora ha sempre ammazzato per me ogni scoramento. Questo coraggio mi impose alfine di fermarmi e dire: "Nano! O tu! O io!". -
Coraggio è infatti la mazza più micidiale, - coraggio che assalti: in
ogni assalto infatti è squilla di fanfare.
Ma l'uomo è l'animale più coraggioso: perciò egli ha superato tutti gli altri animali. Allo squillar di fanfare egli ha superato anche tutte le sofferenze; la sofferenza dell'uomo è però, la più profonda di tutte le sofferenze.
Il coraggio ammazza anche la vertigine in prossimità degli abissi: e dove mai l'uomo non si trova vicino ad abissi! Non è la vista già di per sé un - vedere abissi?
Coraggio è la mazza più micidiale: il coraggio ammazza anche la compassione. Ma la compassione è l'abisso più fondo: quanto l'uomo affonda la sua vista nella vita, altrettanto l'affonda nel dolore.
Coraggio è però la mazza più micidiale, coraggio che assalti - esso ammazza anche la morte, perché dice: "Questo fu la vita? Orsù! Da capo!"
Ma in queste parole sono molte squillanti fanfare. Chi ha orecchi, intenda.

2. "Alt, nano! dissi. O io! O tu! Ma di noi due il più forte sono io -: tu non conosci il mio pensiero abissale!
Questo - tu non potresti sopportarlo!". -
Qui avvenne qualcosa che mi rese più leggero: il nano infatti mi saltò giù dalle spalle, incuriosito! Si accoccolò davanti a me, su di un sasso. Ma, proprio dove ci eravamo fermati, era una porta carraia.
"Guarda questa porta carraia! Nano! continuai: essa ha due volti. Due sentieri convengono qui: nessuno li ha mai percorsi fino alla fine.
Questa lunga via fino alla porta e all'indietro: dura un'eternità. E quella lunga via fuori della porta e avanti - è un'altra eternità.
Si contraddicono a vicenda, questi sentieri; sbattono la testa l'un contro l'altro: e qui, a questa porta carraia, essi convengono. In alto sta scritto il nome della porta: "attimo".
Ma, chi ne percorresse uno dei due - sempre più avanti e sempre più lontano: credi tu, nano, che questi sentieri si contraddicano in eterno?". -
"Tutte le cose diritte mentono, borbottò sprezzante il nano. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo".
"Tu, spirito di gravità! dissi lo incollerito non prendere la cosa troppo alla leggera! O ti lascio accovacciato dove ti trovi, sciancato - e sono io che ti ho portato in alto!
Guarda, continuai, questo attimo! Da questa porta carraia che si chiama attimo, comincia all'indietro una via lunga, eterna: dietro di noi è un'eternità.
Ognuna delle cose che possono camminare, non dovrà forse avere già percorso una volta questa via? Non dovrà ognuna delle cose che possono accadere, già essere accaduta, fatta, trascorsa una volta?
E se tutto è già esistito: che pensi, o nano, di questo attimo? Non deve anche questa porta carraia - esserci già stata?
E tutte le cose non sono forse annodate saldamente l'una all'altra, in modo tale che questo attìmo trae dietiro di sé tutte le cose avvenire? Dunque - anche se stesso?
Infatti, ognuna delle cose che possono camminare: anche in questa lunga via al di fuori - deve camminare ancora una volta!
E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna, e persino questo chiaro di luna e io e tu bisbiglianti a questa porta, di cose eterne bisbiglianti - non dobbiamo tutti esserci stati un'altra volta? - e ritornare a camminare in quell'altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via - non dobbiamo ritornare in eterno?".-
Così parlavo, sempre più flebile: perché avevo paura dei miei stessi pensieri e dei miei pensieri reconditi. E improvvisamente, ecco, udii un cane ululare.
Non avevo già udito una volta un cane ululare così? Il mio pensiero corse all'indietro. Sì! Quand'ero bambino, in infanzia remota: - allora udii un cane ululare così. E lo vidi anche, il pelo irto, la testa all'insù, tremebondo, nel più fondo silenzio di mezzanotte, quando anche i cani credono agli spettri:
- tanto che ne ebbi pietà. Proprio allora la luna piena, in un silenzio di morte, saliva sulla casa, proprio allora si era fermata, una sfera incandescente, - tacita, sul tetto piatto, come su roba altrui:-
ciò aveva inorridito il cane: perché i cani credono ai ladri e agli spettri. E ora, sentendo di nuovo ululare a quel modo, fui ancora una volta preso da pietà.
Ma dov'era il nano? E la porta? E il ragno? E tutto quel bisbigliare? Stavo sognando? Mi ero svegliato? D'un tratto mi trovai in mezzo a orridi macigni, solo, desolato, al più desolato dei chiari di luna.
Ma qui giaceva un uomo! E - proprio qui! - il cane, che saltava, col pelo irto, guaiolante, - adesso mi vide accorrere - e allora ululò di nuovo, urlò: - avevo mai sentito prima un cane urlare aiuto a quel modo?
E, davvero, ciò che vidi, non l'avevo mai visto. Vidi un giovane pastore rotolarsi, soffocato, convulso, stravolto in viso, cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca.
Avevo mai visto tanto schifo e livido raccapriccio dipinto su di un volto? Forse, mentre dormiva, il serpente gli era strisciato dentro le fauci e - lì si era abbarbicato mordendo.
La mia mano tirò con forza il serpente, tirava e tirava - invano! non riusciva a strappare il serpente dalle fauci. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca: "Mordi! Mordi! Staccagli il capo! Mordi!", così gridò da dentro di me: il mio orrore, il mio odio, il mio schifo, la mia pietà, tutto quanto in me - buono o cattivo - gridava da dentro di me, fuso in un sol grido.-
Voi, uomini arditi che mi circondate! Voi, dediti alla ricerca e al tentativo, e chiunque tra di voi si sia mai imbarcato con vele ingegnose per mari inesplorati! Voi che amate gli enigmi!
Sciogliete dunque l'enigma che io allora contemplai, interpretatemi la visione del più solitario tra gli uomini!
Giacché era una visione e una previsione: - che cosa vidi allora per similitudine? E chi è colui che un giorno non potrà non venire?
Chi è il pastore, cui il serprente strisciò in tal modo entro le fauci? Chi è l'uomo, cui le più grevi e le più nere fra le cose strisceranno nelle fauci?
- Il pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido: e morse bene! Lontano da sé sputò la testa del serpente -; e balzò in piedi.-
Non più pastore, non più uomo, - un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise!
Oh, fratelli, udii un riso che non era di uomo, - e ora mi consuma una sete, un desiderio nostalgico, che mai si placa.
La nostalgia di questo riso mi consuma: come sopporto di vivere ancora! Come sopporterei di morire ora! -

Così parlò Zarathustra.

da F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, in Opere, vol. VI, tomo 1.

giovedì 28 settembre 2023

Chandra Candiani, se il primo esercizio è vivere

 

Chandra Candiani, se il primo esercizio è vivere

GEOGRAFIE SENTIMENTALI. Una intervista a proposito della sua nuova silloge in versi «Pane del bosco», pubblicata da Einaudi. Sabato l’autrice sarà ospite di Torino Spiritualità che si apre oggi. Tema di quest’anno è «Agli assenti». «Quando stavo a Milano, se mi sentivo intimorita o a disagio, per esempio in metrò, facevo un piccolo gesto segreto per chiamare il lupo al mio fianco destro e il puma al sinistro. L’immaginario femminile è un luogo abitabile, è costruzione di mondi dove ricaricarsi, si fa tappa nella notte del mondo, si sente compassione, sacra ira, urlo e cucitura»

 

Chandra Candiani / foto di Melina Mulas

Nuovo!

Alessandra Pigliaru

«Sia alto il tuo cuore». Scrive così Chandra Candiani nel suo Pane del bosco (Einaudi, pp. 140, euro 12,50), ultima raccolta in versi composta di poesie dal 2020 al 2023. L’esortazione tuttavia arriva da un ontano bianco, un albero che grida mentre qualcuno corre via da un aggressore meschino e privo di lealtà. Come spesso accade leggendo Candiani, poeta milanese che di recente ha scelto di lasciare la sua città natale per trasferirsi in una casa tra i boschi su un alpeggio piemontese, la realtà è un esercizio di visione e ascolto, di connessione e attenzione.
Se nel libro precedente, 
le favole di Sogni del fiume, abbiamo osservato quanto la soglia dell’impossibile riesca a convocare l’essenziale, è nelle altre sillogi (in particolare da La bambina pugile a Fatti vivo) e nelle sue meditazioni (Il silenzio è cosa viva e Questo immenso non sapere) che abbiamo inteso quanto Candiani abbracci la molteplicità dell’abitare questo mondo, anche quando è già (e sempre) un altro.
Sabato 30 settembre l’autrice sarà ospite di Torino Spiritualità (Teatro Gobetti, ore 17) in conversazione con Armando Buonaiuto, curatore del festival (la nuova edizione si apre oggi per proseguire fino a domenica).

«Pane del bosco» ci orienta nei sentieri della sua poetica che tiene per mano la natura e le sue creature. Prima di tutti gli incontri, ci sono però il bosco e il pane che sembrano suggerire il ritorno a un luogo originario e di nutrimento che si scopre con la meraviglia della prima volta. Che inizio è stato?
L’inizio di una nuova fase della vita, la vecchiaia, che è infanzia della mente e stanchezza del corpo. Dispormi al bosco, al trasferimento in un luogo imprevedibile, alla mia età, faceva stupire tante persone, perplesse ma anche preoccupate. Ma io, senza saperlo, cercavo un posto dove morire non fosse tragedia, ma abbandono. La mente perde convinzioni arrugginite qui, idee solidissime si sgretolano, ma non si tratta solo dell’immersione in un luogo che degli umani se ne infischia, è anche l’entrata nella vecchiaia. Ho voglia di aprire le mani, di lasciar andare la rigidità delle opinioni, di scorrere. Mi dispongo a un nutrimento che è disintossicazione dall’abituale e dall’aggressività mascherata d’altro che percepisco fortemente nel mondo. Qui tutto è diretto, solo quello che è. Così la vecchiaia: ogni ruga un tracciato, ogni dolore una storia, ogni gioia un abbandono all’attimo.

Molte sono le cose che accadono a «Lei» che fa il suo ingresso in un bosco, per esempio perde il nome e anche quando dice «Io» o «Tu» si rivolge al circostante in un dialogo tra differenze. Quella perdita non è allora una rinuncia bensì una rinascita che spiega bene nella poesia «Essere amata da un bosco». Che apprendistato è il tempo di questo amore ricevuto?
«Lei» mi ha anticipato nel primo bosco dove ho vissuto per tre anni, un bosco vicino a un paese, meno assoluto di questo dove vivo ora. «Lei» è quella parte del femminile che vive da sempre nelle selve e non le lascia mai. È stato un apprendistato all’estraneità vissuta con cuore e corpo aperti. Mi sono affidata a Lei che conosce da sempre le piante, sa gridare ai tori, accarezzare gli asini, schivare le domande moleste degli umani: «Lei è di qui?» «No, sono di là». Non ero capace, come tante e tanti, di ricevere, non capivo cosa fare in un bosco, cosa dare e prendere. Dovevo «lasciare i sapienti,/ zoppicare e balbettare». Ho tolto e tolto, è rimasta l’apertura della pelle e dell’anima a quel che c’è. Togliersi è un grande passo per esserci. Perdere il desiderio di piacere è una libertà meravigliosa e il morso di un asino te lo insegna fino alle ossa.

Animali, alberi, bambini intravisti nell’arco di un anno diviso per stagioni che dall’estate arriva alla primavera. È un popolo intero che abita la gratitudine di attraversare la terra, i fiumi, le foglie, le voci più indistinte. Ci sono api, libellule simmetriche, rondini, gatti e altri esseri ancora. La raccolta si apre però con la regalità di un puma e di un lupo. E di quest’ultimo ha già scritto perché molto le sta a cuore. In che modo il lupo le è stato accanto? Cosa dice di lei e del suo legame con la poesia?
Quando vivevo a Milano, se mi sentivo intimorita o a disagio, per esempio in metrò, facevo un piccolo gesto segreto per chiamare il lupo al mio fianco destro e il puma al sinistro. Funzionava sempre. Mi dava dignità e baldanza. Il lupo mi ha portato il dono della sacra ira, dono di vecchia e di antenate. L’ira non è la rabbia, nel Buddhismo tibetano esistono divinità irate, sono guardiani della soglia, protettori. Non ho più voglia di «inghiottire carboni ardenti» ma nemmeno veleno in carta di caramella, dico ‘stop’ con tutte le mie forze. Qui l’hanno visto il lupo e mi dispongo all’incontro, inchinandomi a chi conosce come sopravvivere nell’aperto. Il lupo protegge la mia poesia, non la vuole rispettabile, né erudita, la vuole cruda e vera. Puma e lupo mi insegnano ad aspettare la Voce, a non voler dire o scrivere io, ad attenderle le parole che bussano.

Nel suo specchio dell’infanzia, le bambine sono protagoniste in alleanza vitale tra loro. Anche quando ricordano le ferite che le precedono, le scorgiamo in sodalizio con la forza e la fragilità del mondo e della condizione umana. Non sembrano sognatrici eppure nei loro pensieri c’è sempre una dimensione ulteriore, in cui all’insufficienza della realtà, con la sua violenza e la sua ingiustizia, rispondono con la semplicità dell’amare.
Le bambine sanno amarsi e amare, sanno scegliersi e scegliere, sono bosco. L’immaginario femminile è un luogo abitabile, è costruzione di mondi dove ricaricarsi e poi si torna, si fa tappa nella notte del mondo e si sente compassione, sacra ira, urlo e cucitura, baratro e volo. Ho perso due sorelle e due amiche in questi trasferimenti da mondo a mondo. Dolore che sbrana ma porta al fiume del tempo e ci si specchia cambiate e si sa che occorre riconoscenza per quel che è stato e disponibilità ad avventurarsi in quel che è ora. Sto cercando di essere la migliore amica di me stessa. Non è facile, sono così selvatica che scappo anche da me. La poesia di Ida Travi è per me l’opera magica che mi accompagna in questo trasloco temporale. Nella sua poesia, gli esseri sono parlanti, portano il peso spaventosamente leggero della parola, e trasmettono la nostalgia di un quotidiano altrove che è una mappa di mondi da sempre perduti, non un sentimento. Ho ascoltato l’intervista brevissima a una donna africana appena ripescata dal mare, una regina di sale. Ha detto solo due frasi: «Perché non ci salvate? Non avete bisogno di noi?» È la seconda frase che mi ha toccato fino alle urla del cuore. «Non avete bisogno di noi?» era stupita. Sì, io sì ho bisogno assoluto di te.

Il tema di Torino Spiritualità è «Agli assenti». Nelle sue poesie e nelle sue prose poetiche ha scritto molto riguardo la morte, come di una conversazione perpetua che lambisce la vita. Ma l’assenza non racconta solo della morte, racconta, come scrive in «Pane del bosco» del «dolore interrogato», di una crepa che si apre e in cui si entra. La si assaggia l’assenza, significa «assaporare il furore dell’abbandono».
Gli assenti non sono gli scomparsi. Sono presenti in un modo altro, sottile, poetico, da tradurre, briciole di un pane spezzato, nutrimento bruciante che chiede di abbandonare convinzioni e compiutezze. Niente è compiuto, tutto è in viaggio e dimorare nel non permanere di tutto e di tutti fa un male incicatrizzabile ma permette di aprire le soglie dell’Assenza e di farne Presenza oltre il conosciuto. Ci vuole la magia, se perdiamo la magia per noi è davvero finita. Impariamo dai felini, basta che passi un gatto dovunque siamo e tutto il mondo cambia. Il sacro non è solenne, è misterioso, giocoso, sfuggente, imprevedibile, imprendibile e ci chiede la vita. Tanti hanno creduto che nel verso di una poesia che parla di «un sorriso invivibile» ci fosse un refuso per «invisibile» o altro ancora. No, esistono cose «invivibili» perché ci chiedono la vita, stare senza garanzie davanti al rischio dell’altro. Non avete bisogno di noi? Sì, ho bisogno di voi. Vi salverò tutte con le mie mani bucate. E nella testardaggine d’essere incontrerò gli assenti e la morte non avrà l’ultima parola.

Nella poesia «Eravamo nessuno» fa un omaggio a Cristina Campo nominando «la tigre assenza». Cosa la lega a lei?
La sua non compiacenza, la selvatichezza, la solitudine, la differenza di ricerca, la somiglianza di non placarsi nel trovare, ma nell’andare in cerca di abissi, sostare sull’orlo e sapere che non ce la faremo mai. Mancheremo sempre la poesia come manchiamo ogni volta che ci accontentiamo di spiegazioni. Lo spiegabile non è vivente. Ida Travi: «Fa in modo che le parole non facciano pensare a una poesia, ma lo siano».

 

 

 

mercoledì 13 settembre 2023

Nazismo e managerial science. Una relazione pericolosa

 

 ISSN 2421-0730

NUMERO 1 – GIUGNO 2021

CHARLIE BARNAO

Nazismo e managerial science. Una relazione pericolosa

ABSTRACT - The subject of this article is the cultural connection between Nazism and managerial science. I will address the theme starting from the work of the French historian Johann Chapoutot. In the first part, the general principles and assumptions underlying a cultural history of Nazism will be outlined. Going into more details, I will then move on to consider some fundamental elements of the management culture within the project of Hitler's Germany. In the concluding part of the article, I will present the history and scientific thinking of a central figure in the connection between management and Nazism. It is Reinhard Höhn, SS officer and director of the Institute for State Research at the Friedrich-Wilhelms-Universität of Berlin who, after the war, will translate Nazi ideas into the scientific discipline of management, founding the most important management school in Europe in Bad Harzburg and becoming its most popular and internationally known professor.

KEYWORDS - Nazism - Managerial science - Culture - Reinhard Höhn. 1/2021

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CHARLIE BARNAO

Professore associato di Sociologia Generale, presso l’Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro.

Contributo sottoposto a valutazione anonima.

1 Dell’Autore si vedano almeno J. CHAPOUTOT, Le National-socialisme et l’Antiquité, PUF, 2008 (rééd. coll. «Quadrige», 2012); ID., Fascisme, nazisme et régimes autoritaires en Europe- 1918-1945, PUF, 2013; ID., La Loi du sang. Penser et agir en nazi, Gallimard, Paris, 2014; ID., La révolution culturelle nazie, Gallimard, Paris, 2017; ID., Libres d’obéir. Le management, du nazisme à aujourd’hui, Gallimard, Paris, 2020.

Nazismo e managerial science. Una relazione pericolosa

SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Chapoutot e la storia culturale del nazismo. – 3. Cultura del management, guerra e il progetto della Germania di Hitler. – 4. Reinhard Höhn. – 5. Akademie di Bad Harzburg e managerialsmo postbellico. – 6. Management per delega di responsabilità. – 7. Conclusioni.

1. Introduzione

Oggetto di questo articolo è il rapporto tra nazismo e managerial science. Affronteremo il tema a partire dal lavoro dello storico francese Johann Chapoutot, professore di Storia contemporanea alla Sorbona. Esperto di fama internazionale sulla storia del nazismo, Chapoutot1 si è occupato di management da un punto di vista critico e originale. Lo storico francese fa un lavoro controtendenza rispetto a quell’approccio di studio del nazismo che lo vuole relegare a fenomeno estraneo, irripetibile, distante da tutto ciò che siamo oggi, da tutto ciò che riguarda, oggi, il nostro modo di vivere. Un approccio, quello, che, forse, può piacere perché a volte ci facciamo sopraffare dalla durezza e dalla crudeltà di alcuni fenomeni (il nazismo primo fra tutti), spingendoci a interpretarli come fenomeni estremi sì, ma esterni a noi e al nostro mondo: fenomeni “demoniaci”, “irrazionali”, di regressione verso la “barbarie”. Forse siamo portati a fare questo nel vano tentativo di proteggerci. Lo facciamo per paura, convinti così di esorcizzarli e poterli tenere lontani da noi per sempre.

Invece, purtroppo, spesso si tratta di fenomeni in cui sono protagonisti attori sociali che si muovono all’interno di un universo di significati, perseguendo valori e avendo obiettivi inseriti nel nostro tempo e nei nostri luoghi. Non sono fenomeni culturali impermeabili al mondo che li circonda. Il nazismo nasce e interagisce in un bagno culturale comune europeo e occidentale all’interno del quale assume un ruolo di rilievo la managerial science. CHARLIE BARNAO

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Inizieremo delineando i principi generali e i presupposti che stanno alla base di una storia culturale del nazismo. Chapoutot utilizza un approccio esplicitamente weberiano per comprendere il significato che i nazisti danno alle proprie azioni, all’interno di un contesto storico-sociale ben preciso. Scendendo più nel dettaglio, passeremo poi a considerare alcuni elementi fondamentali della cultura del management all’interno del progetto della Germania di Hitler. Riorganizzare e ottimizzare le risorse diventa l’attività fondamentale per salvare la razza tedesca dall’estinzione. Al centro di questo modello culturale il principio di darwinismo sociale secondo il quale il valore di un individuo è legato alla sua capacità di performance.

Nella parte conclusiva dell’articolo presenteremo la storia e il pensiero scientifico di una figura centrale del collegamento tra management e nazismo. È Reinhard Höhn, ufficiale delle SS (dal 1934) e direttore dell’istituto di ricerca statale dell’università di Berlino che, nel dopo guerra, traslerà le idee naziste nella disciplina scientifica del management, fondando la scuola di management più importante d’Europa a Bad Harzburg e diventandone il professore più carismatico e noto a livello internazionale.

2. Chapoutot e la storia culturale del nazismo

Nel suo libro Libres d’obéir. Le management, du nazisme à aujourd'hui2, Chapoutot, parla dell’ossessione nazista per il management, offrendo una nuova storia critica del management, sostenendo che l’attuale pensiero manageriale è in parte un’eredità del nazismo.

2 J. CHAPOUTOT, Libres d’obéir, cit. (vedi nota 1).

Concentrandosi in particolare sulla figura e sull’influenza di Reinhard Höhn (generale nazista e, nel dopoguerra, scienziato del management di fama internazionale), Chapoutot suggerisce ed evidenzia sorprendenti parallelismi e punti di contatto tra la cultura nazista legata alla gestione delle risorse e le moderne tecniche manageriali. Libres d’obéir è un libro del 2020 molto attuale se pensiamo quanto il management e la cultura del management siano diffusi: nelle aziende e nella politica.

Parlando del tema politico, che si intreccia con quello della cultura aziendale, pensiamo ad esempio all’impiego sempre più frequente di grandi manager per la gestione della cosa pubblica (ricordiamo, ad esempio, tutto il tema della gestione delle “risorse umane”, oggi di 1/2021

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grandissima attualità). In generale assistiamo ad un incremento della diffusione di una cultura imprenditoriale di tipo manageriale anche in ambito pubblico: è il caso, ad esempio, della sempre maggiore diffusione del new public management.

Ma prima di scendere un po’ più nel dettaglio, facciamo un piccolo passo indietro per contestualizzare Libres d’obéir nell’opera di ricerca storica più generale di Chapoutot. Johann Chapoutot ha, con le sue opere, l’obiettivo dichiarato di ricostruire una storia culturale del nazismo. Per capire il nazismo è necessario prendere sul serio le idee e la visione del mondo dei nazisti. Chapoutot si sforza di mostrare quanto il nazismo sia parte di una tradizione culturale europea e occidentale. Così sottolinea anche nella Prefazione alla traduzione francese dell'opera di James Q. Whitman, Hitler’s American Model, un testo in cui si fa un parallelo tra le leggi segregazioniste americane e quelle razziali tedesche, evidenziando come le prime furono di ispirazione per le seconde3.

3 Cfr. J.Q. WHITMAN, Hitler's American model: The United States and the making of Nazi race law, Princeton University Press, Princeton (N.J.) - Oxford, 2017.

4 J. CHAPOUTOT, Le National-socialisme et l'Antiquité, cit. (vedi nota 1).

5 J. CHAPOUTOT, La Loi du sang, cit. (vedi nota 1).

6 J. CHAPOUTOT, La révolution culturelle nazie, cit. (vedi nota 1).

7 Cfr. Z. BAUMAN, Modernity and the Holocaust, Basil Blackwell, Oxford, 1989.

Il metodo che utilizza Chapoutot è quello storico. Analizza migliaia di documenti: scritti ufficiali, circolari amministrative, articoli scientifici, video, fotografie, ecc. Utilizza un approccio dichiaratamente interpretativo di tipo weberiano: comprendere, cioè, il punto di vista degli attori sociali – i nazisti – che agiscono in un determinato contesto. L’obiettivo è, quindi, comprendere qual è il senso che l’attore sociale dà alla propria azione, quale il significato, dal suo punto di vista soggettivo. Libres d’obéir prosegue lo studio della cultura nazista, già presente in altri libri di Chapoutot sul nazismo - tra cui ricordiamo: Il nazionalsocialismo e l’antichità4, la sua tesi di dottorato; La legge del sangue5, la sua tesi di abilitazione; e La rivoluzione culturale nazista6. Si tratta in tutti questi casi di ricerche storiche realizzate con lo stesso tipo di approccio.

Libres d’obéir non vuole stabilire una continuità tra management e nazismo. È un libro storico sul nazismo che mette in evidenza la modernità del nazismo. Ricordiamo come già Bauman, una trentina di anni fa, pubblica Modernità e olocausto, facendo un certo scalpore, mostrandoci come i crimini dell’olocausto non fossero qualcosa di arcaico, ma contemporaneo7. Il nazismo è perfettamente integrato nella modernità e nel nostro contesto CHARLIE BARNAO

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storico. Tutto questo è in contrapposizione ad una visione che lo vorrebbe avulso, quasi estirpato, come fenomeno eccezionale e irripetibile della nostra storia.

Il nazismo con i suoi protagonisti, le sue idee, le sue visioni della vita è parte del nostro mondo. Certo ciò non significa che il nazismo non vada contestualizzato in condizioni strutturali specifiche legate ad un certo periodo storico, alla fine della prima guerra mondiale. Non va dimenticato, quindi, il fatto certo che i nazisti fossero particolarmente radicali, violenti e brutali nelle loro pratiche. Ma gli elementi essenziali che costituiscono i fondamenti del nazismo (imperialismo, militarismo, eugenismo, darwinismo sociale, razzismo e antisemitismo) non sono un’invenzione nazista e neanche un’invenzione tedesca. I nazisti spingono fino alle estreme conseguenze alcune caratteristiche strutturali importanti della nostra modernità occidentale della seconda metà del XIX secolo, nell’attuazione di un progetto che è figlio di una visione escatologica, per realizzare un progetto salvifico: salvare la Germania, salvare la razza tedesca dall’estinzione.

3. Cultura del management, guerra e il progetto della Germania di Hitler

Tutto questo è strettamente legato alla cultura del management. Era necessario per il progetto tedesco – per questo grande obiettivo di “salvezza” – ricostruire il potere della Germania, armandola e riorganizzandola. Appena saliti al potere, nel 1933, i nazisti avevano necessità di produrre, in modo straordinario e senza precedenti, armamenti e apparecchiature tecnologiche con una popolazione scarsa (che nel 1939 sarà ulteriormente diminuita per l’impiego militare).

Sorgono, quindi, due problemi tra di essi collegati: il Reich si dilatava in modo notevole dopo il 1938 con annessioni e conquiste; lo faceva con un personale amministrativo che, per lo stesso motivo (cioè per la mobilitazione di 18 milioni di uomini tra il 1939 e il 1945), diminuiva. Quindi: bisognava riorganizzare e ottimizzare le risorse. Era questo il compito di una classe di giovani molto preparati e ambiziosi che si erano formati e istruiti sulla organizzazione del lavoro nel Menschenführung (cioè “comando”, “leadership”, “guida”) termine che germanizza il termine britannico e americano di management. 1/2021

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Diventava necessario, quindi, fare il più possibile con meno mezzi possibili. Ottimizzare le risorse scarse8. Chapoutot9 cita il caso di Herbert Backe, Segretario di stato dell’agricoltura del Reich, il quale scrive una circolare, un normale documento amministrativo, in cui si pianifica una carestia che porterà alla morte milioni di persone: il famoso Hungerplan. Backe era stato personalmente nominato dal ministro del Reich per i territori orientali occupati, Alfred Rosenberg, come Segretario di Stato (Staatssekretär) del Reichskommissariat dell’Ucraina dove può attuare la sua politica strategica, il Piano della fame (Der Hungerplan o anche Der Backe-Plan). La capacità di trasporto delle ferrovie russe, l'inadeguata rete stradale e la carenza di carburante implicavano il fatto che l'esercito tedesco avrebbe dovuto sostentarsi requisendo cibo dalle fattorie sovietiche ed ucraine. L'obiettivo del “Piano della fame” era quello di infliggere una “fame di massa” deliberata alle popolazioni civili sotto l'occupazione tedesca, dirigendo tutte le scorte di cibo alla popolazione tedesca e alla Wehrmacht sul fronte orientale. Secondo lo storico Timothy Snyder, come risultato del piano di Backe, 4,2 milioni di cittadini sovietici (in gran parte russi, bielorussi e ucraini) furono fatti morire di fame dagli occupanti tedeschi nel periodo 1941-1944.

8 Un principio, questo, molto attuale della rivoluzione neoliberale, che si sente spesso recitare anche dalla politica odierna, fino ad arrivare a casi estremi. È, ad esempio – giusto per ricordarci quanto sia attuale ciò di cui stiamo parlando, e per citare un episodio abbastanza rilevante e molto recente e – il caso della bozza del piano pandemico italiano per il 2021-2023, pubblicata il 10 gennaio 2021. In quella bozza si legge, con riferimento alle risorse delle terapie intensive, che «quando la scarsità rende le risorse insufficienti rispetto alle necessità, i princìpi di etica possono consentire di allocare risorse scarse in modo da fornire trattamenti necessari preferenzialmente a quei pazienti che hanno maggiori possibilità di trarne beneficio». Tradotto: “in situazione di scarsità di risorse, lasciate morire i meno sani”.

9 J. CHAPOUTOT, Libres d’obéir, cit. (vedi nota 1).

Per l’attuazione del suo piano, Backe invia una circolare ai suoi funzionari che lasceranno il fronte orientale nel giugno del 1941. In questo documento scritto si trovano, come prevedibile, molti elementi di radicalità e violenza razzista (contro gli slavi ecc.), ma si trovano anche (è questo è più sorprendente!) termini ed espressioni molto attuali della scienza manageriale come: “agilità”, “flessibilità”, “aggressività”, “prendere l’iniziativa”. Quella circolare – che è uno delle migliaia dei documenti analizzati nel suo lavoro di analisi storica – secondo Chapoutot ricorda da molto vicino, per i termini utilizzati e per il linguaggio, “un documento commerciale di una grande azienda multinazionale”. CHARLIE BARNAO

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Il nazismo voleva modernizzare la società, voleva costruire automobili per tutte le famiglie (la Volkswagen, la “macchina del popolo”, doveva essere la “Ford T” del Reich: un incentivo, una ricompensa e la punta di diamante della motorizzazione tedesca), voleva incrementare l’innovazione tecnologica. Tutto ciò era anche l’eco di quanto stava accadendo negli USA: sappiamo, storicamente e culturalmente, quanto forti siano i collegamenti ad esempio tra Ford, IBM e nazismo. Ciò avveniva grazie a discipline di grande sviluppo come il marketing e il management, che i tedeschi ammiravano per i princìpi di “velocità”, “aggressività”, “flessibilità”, che li caratterizzavano. Si trattava di principi che si contrapponevano alla rigidità istituzionale e amministrativa che i nazisti vedevano, ad esempio, plasticamente rappresentata dal modello di organizzazione amministrativa francese, dallo Stato francese.

Contrariamente a come molti di noi spesso vedono i tedeschi (rigidi, estremamente gerarchici ecc.) quel periodo culturale puntava alla realizzazione (e ne rappresentò nei fatti l’avvento) di quella che i tedeschi stessi chiamano la libertà germanica. Dietro di essa c’è un messaggio culturale, razziale e biologico molto chiaro, di cui Chapoutot parla anche nel suo libro La legge del sangue: il cittadino tedesco si auto-organizza e si fa dominare spontaneamente da un altro tedesco; il tedesco è libero perché è sano nel corpo e nella mente10. Sono i malati, cioè i meticci, i “bastardi razziali”, che hanno bisogno delle catene della norma e delle catene dello Stato per organizzarsi. Il tedesco invece è naturalmente libero. Chapoutot fa un’analisi testuale di documenti dai quali emerge come la “libertà germanica” non sia in contrapposizione con l’idea di una catena di comando. Nello svolgimento delle missioni che i nazisti devono realizzare vengono utilizzati termini come “individualità” e “attitudine individuale”, “impegno”, “coinvolgimento personale”, “desiderio personale” che devono essere incarnati, corpo e anima, nella missione. Anche questi sono tutti temi molto cari e vicini alla cultura aziendale contemporanea. È importante sottolineare che l’anima del Reich è costituita dalla comprensione delle leggi della natura ed è a questo proposito che i nazisti rivendicano la loro “libertà di obbedienza” al Führer. Il Führer non ottiene obbedienza per elezioni democratiche, né per ragioni di nascita.

10 Cfr. J. CHAPOUTOT, La Loi du sang, cit. (vedi nota 1).

11 Cfr. M. WEBER, Wirtschaft und Gesellschaft, Mohr, Tübingen, 1922.

Nel primo caso possiamo leggere un implicito riferimento al concetto, espresso da Weber11, di potere legale razionale, cioè legittimato dalle leggi; nel secondo caso si può leggere un implicito riferimento al potere tradizionale, 1/2021

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cioè legittimato dalla tradizione12. Il tedesco, secondo Chapoutot, obbedisce al Führer perché quest’ultimo è colui che ha meglio compreso “le leggi della natura e della storia”. E qui abbiamo, infine, un implicito riferimento al potere carismatico: il carisma, la qualità straordinaria del Führer sulla quale si basa il suo potere, è quella quindi di avere meglio di chiunque altro compreso le leggi della natura13.

12 Ibidem.

13 Ibidem.

14 J. CHAPOUTOT, La révolution culturelle nazie, cit. (vedi nota 1).

Obbedendo al Führer faccio il mio bene, proteggo la mia salute, la mia prosperità, la mia procreazione, la prosecuzione della mia razza. Se io obbedisco al Führer, sono libero. Sono altri popoli europei coloro i quali restano schiavi dello Stato e delle norme; oppure sono gli orientali che restano asserviti ad un potere bolscevico. L’esperienza e la visione nazista del mondo costituiscono una vera e propria “Rivoluzione culturale”. Chapoutot ne parla esplicitamente e approfondisce il tema in un testo, appunto, dal titolo La rivoluzione culturale nazista14. È la rivoluzione culturale dell’idea di individuo, a partire dall’uomo tedesco. Si tratta di una rottura fondamentale con la tradizione giuridica europea: i nazisti dicono che l’essere umano non ha valore e dignità in senso assoluto, ma li ha in base alla sua produttività, alla sua prestazione alla sua redditività. La performance è al centro.

Il valore di un individuo è legato alla sua capacità di performance. Il razzismo nazista, infatti, è eugenetico: non basta avere il giusto sangue e il giusto colore della pelle, occorre anche essere pienamente impiegabili nel sistema produttivo e riproduttivo. La violenza dei nazisti, quindi, si abbatte contro le persone non redditizie, improduttive, in una parola “non performanti”. Si ha dignità di vivere solo se ci si mostra performante da un punto di vista sportivo, sessuale, economico, oppure in qualità di guerriero che difende il Reich. Chi non è considerato abile è destinato alla sterilizzazione (ricordiamo le oltre 400.000 sterilizzazioni in Germania dal 1933 al 1945) o soppressione (a partire dall’ottobre 1939 iniziano le soppressioni di massa).

Si tratta di una “selezione naturale” che avviene in un contesto di guerra di tutti contro tutti, per la conquista delle risorse scarse e degli spazi. È qui che c’è la modernità del nazismo, in un contesto di vero e proprio darwinismo sociale. Su quest’ultimo concetto Chapoutot insiste molto nei suoi libri. Esistono forme di razzismo (ad es. colonialismo) dappertutto, ma i nazisti sono i campioni di darwinismo sociale. In un mondo che ci CHARLIE BARNAO

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circonda, che è sempre in guerra (I guerra, guerre coloniali, ecc.), resiste e sopravvive solo chi è un campione della performance (principio tipico del management neoliberista). Come già ricordato, il Führer è colui che meglio comprende le regole della natura e il cittadino tedesco obbedisce “liberamente” a lui perché così si salva, unendosi con gli altri “camerati nella razza”. Tutto ciò accade in una dimensione tipicamente politica.

Nel mondo economico accade qualcosa di analogo e corrispondente. Il capo non è un capo autoritario, ma è un leader e gli altri membri della società, dell’azienda, sono “camerati produttivi”, il tutto in una perfetta analogia col mondo politico. Quello che vuole il mio leader è il meglio per me e mi sento libero di obbedire: mi vengono indicati gli obiettivi (io non partecipo alla loro definizione) e ho una notevole libertà di scegliere i mezzi per perseguirli. “Libertà”, quindi, è la parola d’ordine della cultura del management attorno alla flessibilità e alla libertà d’azione che viene lasciata agli individui per raggiungere gli obiettivi. Un discorso ossessivo dei giuristi nazisti è quello per cui la norma ha valore relativo, non ha valore assoluto e dipende dall’obiettivo. E l’obiettivo è la prosperità, la protezione, la moltiplicazione della razza. Da qui la concezione del diritto, ma anche la concezione del leader, la concezione dell’organizzazione e la concezione della menschenführung.

4. Reinhard Höhn

È arrivato adesso il momento di introdurre ed approfondire la figura di un uomo centrale dell’analisi storica e sociale compiuta da Chapoutot. Un nazista, uno studioso, un giurista, un accademico, che è al centro del discorso dello storico francese e incarna, per molti versi, la sintesi del pensiero nazista fin qui espresso, avendolo promosso ed essendone egli stesso protagonista. È Reinhard Höhn che, nel dopo guerra, traslerà le idee naziste nella disciplina scientifica del management. Reinhard Höhn, ufficiale delle SS (dal 1934) e direttore dell’istituto di ricerca statale dell’università di Berlino, è infatti uno dei pionieri della disciplina nazista del management.

Nato a Graefenthal, in Turingia, il 29 luglio 1904, Höhn è uno dei giovani tecnocrati e accademici della classe media che hanno fatto carriere sfavillanti nel Terzo Reich. È, infatti, una persona rappresentativa di una nutrita generazione di giovani molto ben istruiti presso le università 1/2021

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tedesche15, che in genere arrivavano al dottorato, e che alla fine degli anni 1920 militavano all’interno di associazioni di estrema destra – che non necessariamente erano naziste – alle quali in quegli anni, se si voleva fare carriera e promuovere le proprie idee, era necessario unirsi16.

15 Chapoutot cita, tra gli altri, anche Werner Best, Wilhelm Stuckart, Otto Ohlendorf. Cfr. J. CHAPOUTOT, Libres d’obéir, cit. (vedi nota 1).

16 Cfr. R.S. WISTRICH, Who's who in Nazi Germany, Routledge, London, 2013.

Dopo aver studiato giurisprudenza in varie università tedesche, e aver militato in varie organizzazioni di estrema destra, quindi, Höhn entra nel partito nazista il 1° maggio 1933 e nelle SS un anno dopo. Quella forza nascente sollecitava Höhn, e i giovani come lui, ad unirsi per dare forza alle strutture amministrative che si stavano formando per la costituzione dell’élite naziste (le SS erano l’élite dell’élite: molto ben formate ed addestrate e con militanti radicali). È a persone come Höhn e come Himmler, leader delle SS, che vengono promesse le chiavi della Germania e dell’Europa del futuro. All’interno delle SS, Höhn viene elevato al grado di Standartenführer (colonnello) nel 1939, e viene nominato Oberführer (generale) nel 1944, finendo la guerra con questo grado.

Parallelamente alla carriera nelle SS, Höhn fa una rapida e brillante carriera accademica. Nel 1935 diventa professore a contratto a Heidelberg e un anno dopo diviene membro dell'Accademia di diritto tedesco. Dal 1939 (fino alla fine della guerra) è professore all’Università di Berlino, divenendo anche direttore dell'Istituto di ricerca statale presso l'Università di Berlino. Höhn (che dal 1935 divenne anche consulente legale di Heydrich e che era anche grande appassionato di storia e sociologia), dal punto di vista scientifico, proponeva una filosofia del diritto che sosteneva il principio di leadership (Führerprinzip) e la completa sottomissione dell'individuo alla Comunità nazionale (Volksgemeinschaft) nazionalsocialista, definita come una “comunità di specie” basata sul sangue e sul suolo.

Inizialmente vicino a Carl Schmitt – che corteggiava assiduamente senza però riceverne il riconoscimento che si aspettava – gli si allontanò poi radicalmente attraverso la sua de-costruzione storica e la sua svalutazione giuridica della nozione di Stato. Il pensiero di Höhn a questo proposito appare già molto chiaro e particolarmente visibile in un testo del 1934 intitolato Mutazioni del pensiero costituzionale. Höhn opera una reinterpretazione storica del concetto di Stato per dimostrare il suo carattere obsoleto. La nozione di Stato, secondo Höhn, è solidale con il dominio dei sovrani dell'era moderna, apparsi in Italia durante il Rinascimento, prima di vivere una brillante maturità nella Francia di Richelieu e Luigi XIV. CHARLIE BARNAO

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Radicato in un'età passata, lo Stato non è più rilevante nel tempo e nell'età della “comunità”. Höhn sottolinea che “non è lo Stato che crea il popolo, ma è la comunità del popolo che crea lo Stato”. Quest’ultimo è un mero strumento secondario e non la realtà suprema. Su questo punto si distanzia in modo netto da Schmitt. La colpa di Schmitt - cattolico, innamorato dell'Italia e della Francia - è di essere irrimediabilmente attaccato allo Stato, principio e fine della vita legale. Troppo cattolico, troppo romano, troppo latino e teologo, Schmitt, nel diritto interno, è “un uomo di Stato e non di razza”. Per Höhn, quindi, Schmitt appare un uomo del passato.

Dal punto di vista del pensiero e della sua attività come giurista, durante il nazismo e la guerra, Chapoutot definisce Höhn “una sorta di Josef Mengele della legge”. Nelle sue conferenze durante la guerra, Höhn giustifica dal punto di vista legale le pene draconiane (inclusa la condanna a morte), anche per crimini minori, specialmente contro i polacchi e altri popoli occupati. La volontà della comunità razziale tedesca, incarnata nel Führer, aveva soppiantato, nell'insegnamento di Höhn, ogni residuo di diritti individuali e garanzie democratiche fornite da un sistema legale liberal-razionale.

Ma facciamo un piccolo passo indietro. Come abbiamo già detto dal 1939 Höhn diventa direttore dell'Istituto di ricerca statale presso l'Università di Berlino. L’Istituto di ricerca statale è un importantissimo anello di congiunzione tra l’SS e l’università, e ha tra i suoi principali obiettivi, studiare il modo di adattare le strutture amministrative all’espansione dell’impero che, come abbiamo già anticipato, è un aspetto strategico fondamentale per la sopravvivenza e l’azione del Reich.

La rivista scientifica di riferimento a partire dal 1941 è “Reich - Volksordnung – Lebensraum” (Impero, Ordine del popolo, habitat), la rivista di geopolitica più importante del Reich, e Höhn la dirigerà fino al 1944. In essa vengono pubblicati articoli scientifici che si occupano principalmente dell’applicazione delle scienze amministrative ad un impero in grandissima espansione. Gli autori che scrivono in questa rivista sono ovviamente euforici per questa epoca storica importantissima che vivono, ma non nascondono i grandi problemi che si trovano ad affrontare: bisogna fare molto, molto di più con molto molto di meno e senza lamentele, senza infastidire una gerarchia che ha altro da fare che non ascoltare le problematiche e le lamentele, ad esempio, di un amministratore in Bielorussia, che deve invece imparare a cavarsela da solo. La soluzione sta in quello che diventerà un concetto centrale della teoria manageriale di Höhn: il principio della delega della responsabilità. I sottoposti devono 1/2021

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conoscere ma non partecipare alla scelta degli obiettivi ultimi e devono perseguire tali obiettivi in modo autonomo attraverso la scelta – questa sì autonoma - e l’uso di tutti i mezzi necessari. Höhn continuerà a dirigere l’istituto statale di ricerca dell’università di Berlino fino alla fine della guerra.

5. Akademie di Bad Harzburg e managerialsmo postbellico

Una volta finita la guerra, Höhn e altri ex colleghi (tra cui Justus Beyer e Franz-Alfred Six), continueranno ad occuparsi e a scrivere su molti degli stessi problemi economici, politici e di diritto che avevano trattato presso l’Istituto di Ricerca Statale dell’università di Berlino. Ovviamente tutto ciò avveniva in un contesto radicalmente nuovo e diverso: quello politico ed economico postbellico.

Höhn, quindi, forte della sua esperienza e del suo lavoro all’Istituto di Ricerca Statale dell'Università di Berlino, dopo essersi nascosto per quattro anni (farà il naturopata), alla fine degli anni ‘40, costituisce un think tank con lo scopo di formare dipendenti d’altissimo livello aziendale. L’idea è quella di creare una grande scuola di management e gestione d’aziende che per la Germania sia l’equivalente dell’Harvard Business School. Per potere realizzare questo suo progetto Höhn utilizzerà, dopo la guerra, una forte rete di protezione e solidarietà dei nazisti (ricordiamo come poco dopo la fine della guerra la priorità è la lotta al comunismo): sono migliaia i nazisti che ne beneficiano (chi andrà in America latina, chi in Germania occidentale; andranno a lavorare negli ospedali, nell’intelligence, nell’università, nella diplomazia ecc.). In particolare Höhn beneficerà della rete di solidarietà del settore privato, che ricicla molti nazisti. Ciò accade, molto semplicemente, perché l’industria tedesca – che aveva avuto un periodo molto florido durante il nazismo – aveva creato una importante rete di contatti composta, dopo la guerra, da molte delle stesse persone che costituivano la rete internazionale durante la guerra stessa. Un vero e proprio capitale sociale di contatti che viene attivato e che è costituito da importanti professionisti e colleghi di Höhn.

I tedeschi fondano, così, la scuola di management più importante d’Europa a Bad Harzburg nel 1956. È Reinhard Höhn che la crea, è lui che la dirige ed è il professore più carismatico e il più importante insieme con altri ex-SS come Justus Beyer (che insegna Diritto commerciale) e Franz- Alfred Six (che insegna Marketing). Dopo il 1945 Höhn non è soltanto un CHARLIE BARNAO

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tedesco che termina la guerra con il grado di generale delle SS, ma pubblica tantissimi lavori e studi particolarmente rilevanti sulla teoria e sull’applicazione del management.

Höhn, ci ricorda Chapoutot, non deve cambiare una virgola del suo pensiero e delle teorie che aveva applicato durante il nazismo: lo Stato, considerato un mezzo, veniva sostituito dalle aziende private e, dall’altra parte, la gestione manageriale, il Menschenführung, ottimale in termini di produttività, diventa una sorta management liberale. I nazisti lo avevano capito molto bene prima del 1945 e, dopo il 1945, il management per delega di responsabilità (questa la sua formalizzazione scientifica) diventava una derivazione diretta della matrice teorico-metodologica nazista degli anni 30.

Sono anni importantissimi per Höhn. Le sue pubblicazioni hanno un grande successo e anche la scuola ne ha: formerà circa 600.000 dirigenti per 2.600 aziende. Gli studenti formati all'Akademie di Bad Harzburg sono dirigenti, funzionari, inviati dai loro datori di lavoro, per poche settimane o pochi mesi, per formarsi in management. Si tratta di una scuola di formazione continua di altissimo livello, paragonabile alla sua controparte francese, INSEAD (fondata nel 1957), o a qualsiasi scuola di business di altissimo livello internazionale.

E, così, tutti insieme e allo stesso tempo, l’élite e i protagonisti del “miracolo economico tedesco”, si ritrovano nei seminari di Reinhard Höhn e dei suoi colleghi: Aldi, BMW, Hoechst, ma anche Bayer, Telefunken, Esso, Krupp, Thyssen, Opel, per non parlare di Ford, Colgate, Hewlett-Packard e persino la regina tedesca del sexy shop e del porno, Beate Uhse International che, come altre 2.600 aziende, mandano i propri manager ad ascoltare e seguire le eccellenti lezioni degli ex uomini delle SS. I tedeschi vanno tutti a questa scuola ed è un tale successo – Höhn è un sostenitore della tesi che l’amministrazione pubblica debba adeguarsi agli standard del privato – che anche l’amministrazione pubblica manda lì a formarsi ai suoi dirigenti. L’esercito manda lì i propri ufficiali. Sulla base di un tale enorme successo, il metodo di management insegnato nella scuola diventa una sorta di marchio registrato, che si chiama, come abbiamo anticipato, management per delega di responsabilità.

6. Management per delega di responsabilità

All'Akademie di Bad Harzburg vengono insegnati i princìpi del management per delega di responsabilità. Si tratta di una forma di management 1/2021

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in cui i protagonisti sono “liberi di obbedire”. L’individuo non sceglie gli obiettivi, ma sceglie solo gli strumenti per perseguirli. La responsabilità dell’eventuale fallimento è tutta individuale. Si tratta di un approccio che ha alcuni punti di contatto a quello di Peter Drucker, ma è anche la risposta tedesca alle teorie manageriali del francese Henri Fayol. Drucker, lo ricordiamo, è uno dei padri del management moderno, e ha elaborato la teoria del management per obiettivi, negli anni 1950 negli USA. Il messaggio del management per delega di responsabilità è un messaggio culturale chiaro da dare ai cittadini: “Siete liberi! E se fallite è colpa vostra!” L’approccio proposto da Höhn, con il suo impenitente darwinismo sociale, trovava terreno fertile nel mondo del miracolo economico (1950-1970), del miracolo economico tedesco in particolare, con le nozioni di “crescita massima”, “produttività” e “concorrenza”, che avevano precedentemente guidato l’inesorabile ricerca nazista di produzione e potere.

Höhn ha trasposto le tattiche di missione (Anftragstaktit) nel business, con la sua gestione tramite delega, una gestione antiautoritaria e quindi adatta alla nuova cultura democratica. I capi devono assegnare un obiettivo e un tempo di realizzazione; quindi poi osservano, controllano e valutano la risposta dei lavoratori. Il sistema nazista diventa una sorta di co-management, utile anche a prevenire i conflitti tra capi e dipendenti (concepiti come compagni-collaboratori), stroncando ogni desiderio di contestazione sul nascere. I lavoratori di un’azienda sono uniti dagli stessi legami organici dei membri di una comunità naturale. La gestione tramite delega di responsabilità divenne, quindi, il nucleo centrale del metodo manageriale insegnato a Bad Harzburg.

Il cosiddetto metodo di Bad Harzburg, che per decenni è stato l’orgoglio della FRG (Federal Republic of Germany), in particolare, sulla base di quanto ci dice Chapoutot, si può sintetizzare in alcuni punti: delega di responsabilità, sistema di controllo, leadership non autoritaria, darwinismo sociale. Per quanto riguarda la delega di responsabilità, abbiamo già detto: il dipendente sceglie solo i mezzi non i fini17. La delega è affiancata, comunque, da un sistema di controllo che si basa sulla paura e sul dominio per la massimizzazione del profitto (il caso di ALDI, di cui parleremo più avanti, ne è un chiaro esempio). La dinamica organizzativa si basa su uno stile di leadership non autoritaria. Tuttavia, è bene ricordare a questo proposito, che anche se Il funzionamento dell'organizzazione è pensato per essere “non autoritario”, rimane completamente gerarchico, perché il rapporto fondamentale resta quello tra il leader e l'esecutore. Il leader,

17 Cfr. J. CHAPOUTOT, Libres d’obéir, cit. (vedi nota 1). CHARLIE BARNAO

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contrariamente alle pratiche fino ad allora in vigore, non prescrive l'azione nei dettagli più precisi della sua esecuzione. Si limita a “linee guida” in termini di “obiettivi”. Il ruolo del leader è ordinare (un risultato, ad esempio), quindi osservare, controllare e valutare. Il tutto avviene sullo sfondo della metafora della guerra (parallelo con il mondo del business) che richiama, nei fatti, il principio del darwinismo sociale.

Il metodo di Bad Harzburg, anche per quanto riguarda l’idea di Stato, non fa altro che replicare, anche per la forma organizzativa, le idee naziste rispetto allo Stato. Ricordiamo che i nazisti odiavano lo Stato perché è una realtà “straniera” (importata dalla cultura di giudeo cristiani rafforzati dal prestigio di luigi XIV) e imposta con le armi. Lo Stato è una realtà aliena alla quale viene contrapposto il concetto di “libertà germanica”. Lo Stato quindi è, inoltre, una realtà statica che si oppone al flusso e alla “dinamica della vita e del sangue” ed è un ostacolo, fatto di norme che bloccano la libera iniziativa, di funzionari che incarnano la norma e che costituiscono la burocrazia. Ecco perché i nazisti odiano la burocrazia e i dipendenti del servizio pubblico. Quindi bisogna sostituire lo Stato con qualcosa che davvero rispetti le leggi della natura che sono: “rapidità”, “aggressività”, “dinamicità”. Gli attori che hanno queste caratteristiche sono delle società, delle organizzazioni, delle istituzioni che vengono definite per un budget, per un progetto e per una missione. Queste società costituiscono uno strumento rapido, flessibile, duttile. Questa forma organizzativa si sposa con ciò che Höhn aveva già teorizzato intorno a agli anni 1930, e che era stato messo in atto a partire dal 1933, polverizzando lo Stato, minandolo al suo interno, attraverso la moltiplicazione delle agenzie e delle organizzazioni poste sotto la bandiera del III Reich. Si tratta di agenzie e organizzazioni che vengono costituite sulla base dei princìpi del management all’interno di un generale processo di disgregazione dello Stato. Su tutti questi presupposti, i princìpi insegnati a Bad Harzburg vanno applicati anche al settore pubblico in una prospettiva anti-statale e pro-agenzie/istituzioni societarie. Il modello di Höhn appare così, secondo Chapoutot, come un vero precursore del new public management. Può essere interessante notare come – sebbene il new public management (che si sviluppa a partire dagli anni 70) si sviluppi come una componente strutturale, ontologica, del neoliberismo (il quale a sua volta deriva da una matrice esplicitamente antinazista) – l’odio profondo dei nazisti per lo Stato è incarnato dal pensiero di studiosi come Höhn già 40 anni prima dell’avvento del new public management. 1/2021

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Tuttavia, quando all’improvviso il passato di Höhn viene a galla, la scuola di Bad Harzburg cade in disgrazia. Il 9 dicembre 1971, il passato nazista del professor Höhn viene alla ribalta in un devastante articolo su Vorwärts, storico quotidiano socialdemocratico. Scoppia lo scandalo. Una lettera aperta viene inviata da famosi scrittori, tra cui Siegfried Lenz, Erich Kästner e Günther Wallraf, al Ministro della Difesa, Helmut Schmidt. Pochi mesi dopo, nel marzo 1972, il ministro ha deciso: la collaborazione della Bundeswehr (forze armate) con l'Accademia di Bad Harzburg è terminata. Da quel momento inizia il declino reputazionale. Nel 1989, infine, l'Accademia di Bad Harzburg, che soffriva notevolmente della reputazione del suo leader, va in fallimento. Höhn continua comunque a pubblicare fino al 1995. Quando muore, nel 2000, viene salutato dalla stampa internazionale come un grande pensatore del management contemporaneo.

Tra i suoi tanti seguaci contemporanei, spicca il nome di ALDI. ALDI (acronimo di ALbrecht-DIscount) è una multinazionale tedesca (con un fatturato 45,5 miliardi, 40.000 dipendenti in Germania e 148.000 nel mondo) attiva nel settore della grande distribuzione organizzata, ed è una delle principali aziende del mondo nel suo settore. ALDI è un punto di riferimento della società dei consumi tedesca sin dagli anni 1950 e vero inventore del sistema dei discount. Il suo principale concorrente è Lidl. Nel 2012, un dirigente della catena di vendita al dettaglio Aldi, Andreas Straub (2012), pubblica un libro (“Aldi - Einfach billig: Ein ehemaliger Manager packt aus”) sulla sua dolorosa esperienza come manager di un centro di distribuzione presso l'azienda e descrive il mondo opprimente di costante controllo e minaccia di Aldi. Aldi rivendica con orgoglio, sin dalle sue origini, il metodo di gestione di Bad Harzburg, come specificato nel suo manuale gestionale.

La sezione M4, intitolata “Gestione dei dipendenti”, specifica:

[il responsabile di settore] cercherà di sviluppare la discussione con tutto il team applicando il modello di Harzburg. Questo modello di gestione si caratterizza per il principio della delega, ovvero la trasmissione di compiti e responsabilità a un dipendente, il quale accetta quindi il monitoraggio critico e il controllo dal superiore gerarchico. […] Il superiore gerarchico fissa obiettivi e scadenze individuali per ogni dipendente. L'essenziale sta nella fissazione di "obiettivi", nella prescrizione di "scadenze" per il completamento e nell'esercizio del "controllo". CHARLIE BARNAO

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Così Andreas Straub scrive nel suo libro e, dopo di lui, il settimanale tedesco Der Spiegel che, il 30 aprile 2012, dedica un dossier a questa vicenda. In un’intervista alla rivista, l'autore del libro afferma: “Il sistema vive di totale controllo e paura. Tutto sembra a posto per garantire la ‘massimizzazione del profitto’”. Straub continua sottolineando come “il monitoraggio delle attività e del loro tempo di esecuzione è permanente, anche mediante telecamere che riprendono i dipendenti”. Conclude dichiarando che “A causa dell’illegalità del processo, Aldi preferisce inviare ‘finti clienti’ ai propri negozi per ‘acquisti di prova’ che hanno lo scopo di valutare le prestazioni dei cassieri”18.

18 L’intera intervista è consultabile all’indirizzo: https://www.spiegel.de/wirtschaft/ unternehmen/aldi-ex-manager-straub-berichtet-ueber-ueberwachung-und-kontrolle-a- 830922.html (ultima consultazione: 12 giugno 2021).

7. Conclusioni

Il lavoro di Chapoutot è estremamente interessante e per certi versi illuminante. Innanzitutto è uno studio culturale approfondito ed è utilissimo specie per chi utilizza un approccio culturalista negli studi sociologici legati a fenomeni sociali contemporanei. Chapoutot, con la sua storia culturale, infatti, contribuisce sia alla storia del management che ad una linea più ampia e consolidata di teorizzazione critica sulla modernità. Il pensiero manageriale dei nazisti, comunque, differisce da altre teorie emerse nel contesto del capitalismo industriale del XX secolo.

Certo l’attenzione dei nazisti verso la produttività può ovviamente fare eco alle idee di Frederick Taylor e Henry Ford. È stato dimostrato, ad esempio, che i nazisti hanno adottato la critica antisemita di Ford relativa agli sforzi economici produttivi (cioè orientati alla produzione) rispetto a quelli parassitari (degli ebrei, orientati al lucro), e i loro ingegneri hanno modellato il loro impianto Volkswagen sull’esempio di quello di Ford River Rouge (Link 2012).

A livello teorico la “meccanicizzazione” dei lavoratori da parte dei nazisti si basava meno sulla glorificazione dei macchinari e della competenza tecnica e più sulle metafore organiche, per la verità non così ben supportate da un punto di vista scientifico (qualcuno parla a questo riguardo di “folklore dell’immaginazione”). I lavoratori nazisti non furono trasformati artificialmente in forze produttive: la loro produttività veniva da un imperativo biologico. Per Höhn la vita era un movimento governato 1/2021

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dalle leggi deterministe del darwinismo sociale: doveva essere vissuta così sia nel campo sociale che nel campo di battaglia. Il polo opposto di Höhn è forse Drucker, per il quale la vita era definita dal suo significato (o dalla sua assenza) e che pensava che il lavoro dovesse consentire ai lavoratori di realizzarsi individualmente. Per Drucker, il management degli obiettivi non significava che i lavoratori fossero “liberi di obbedire”, ma che dovevano partecipare all’elaborazione degli obiettivi19.

19 N. GILMAN, N. LICHTENSTEIN, The prophet of post-Fordism: Peter Drucker and the legitimation of the corporation, in N. LICHTENSTEIN (a cura di), American capitalism: Social thought and political economy in the twentieth century, University of Pennsylvania Press, Philadelphia, 2006, 109-11.

Il mito dell’impermeabilità e dell’isolamento del nazismo è, appunto, un mito. Il nazismo contamina ed è contaminato dalle culture all’interno delle quali si manifesta e si sviluppa. Chapoutot ce lo dimostra combinandole tra loro, e andando per certi versi oltre, le diverse scuole di pensiero, le diverse culture (nazionali, transnazionali, storiche, ecc.) che hanno contaminato il nazismo creando una miscela di antisemitismo, antistatalismo, e pianificazione economica, tutti inseriti in una ben precisa matrice di darwinismo sociale. E, soprattutto, Chapoutot ci mostra che il pensiero manageriale di oggi è in parte una chiara ed inequivocabile eredità del nazismo.